Il lockdown è oramai prossimo al termine, ma prima di poter tornare alla normalità di tutti i giorni bisognerà aspettare ancora qualche settimana. Ci sono regioni, come la Lombardia, che dal 24 febbraio hanno interrotto tutte le attività e costretto, a ragion veduta, tutti i cittadini nelle rispettive abitazioni, minacciando anche sanzioni pesanti ai trasgressori. Due mesi di quarantena hanno comportato inevitabili problematiche dal punto di vista della produzione anche di quei prodotti che nascono esclusivamente per l’intrattenimento, ma per approfondire meglio alcune situazioni abbiamo contattato Mario Petillo, salernitano classe 1990 da otto anni a Milano, nel cuore dell’epidemia legata al Covid-19. Sceneggiatore, scrittore e professionista nel settore della comunicazione digital, per importanti marchi nazionali e internazionali, Mario ci ha fornito alcuni elementi per andare a comprendere determinate dinamiche che appartengono ai settori di sua competenza.
Prima di tutto, il lockdown come ha cambiato la percezione del mondo della comunicazione?
Guardiamo il lato positivo e affermiamo che finalmente si è compiuto quel passo verso la tanto attesa e agognata digitalizzazione, che se negli ultimi anni era diventato un termine per riempirsi la bocca, adesso è finalmente realtà. Tutti, senza esclusione, sono stati costretti a compiere questo passo in avanti, verso il nostro futuro e verso una modernizzazione che molte città ancora stentavano a realizzare. Ovviamente di pari passo a questo aggiornamento c’è bisogno di intervenire sulla cultura del cittadino e del fruitore finale: è indubbio che l’Italia sia ancora molto indietro in questo aspetto, a causa anche di infrastrutture che non permettono di avere performance di prima fascia, ma ci siamo difesi più che bene. Abbiamo scoperto che è possibile l’e-learning, quindi gestire attività didattiche anche a distanza: un aspetto che in futuro potrà serenamente affiancare la didattica tradizionale, così da venire incontro a studenti che, per svariati motivi, potrebbero doversi assentare per un lungo periodo dalle attività scolastiche o universitarie. Basti pensare a un’operazione medica, un malessere improvviso che impedisce di recarsi in determinati luoghi oppure a qualsiasi tipo di esigenza sopraggiunta. Pensiamo anche allo smartworking, che finalmente abbiamo scoperto: ne abbiamo cambiato un po’ il senso, perché la natura del termine è quella di proporre ai vari dipendenti delle aziende un lavoro agile, quindi scevro da vincoli temporali, ma abbiamo comunque scoperto le comodità del non doversi riversare sui mezzi pubblicità per mezz’ora o più per raggiungere il proprio ufficio e ne abbiamo guadagnato anche in ore di sonno. Ovviamente faccio riferimento alla città in cui vivo, che è Milano, ma il concetto penso sia facilmente declinabile per un po’ tutti. Abbiamo scoperto i webinar, le videocall, abbiamo finalmente mostrato al mondo che possiamo firmare contratti e avviare progetti anche senza doversi necessariamente incontrare e che possiamo affidarci a professionisti che si trovano a 600 chilometri di distanza da noi grazie alla digitalizzazione. Ce la stiamo facendo e finalmente stiamo compiendo un passo in avanti. Peccato aver dovuto attendere un’epidemia per rendercene conto.
E dal punto di vista dell’entertainment questa situazione come è stata reinterpretata?
Sicuramente il cinema e la musica sono i settori che hanno accusato molto l’epidemia. Purtroppo si sono dovute fermare, come logica suggerisce, qualsiasi produzione cinematografica: non sono possibili le riprese, non sono possibili gli spostamenti, né attività tra le più semplici. Probabilmente i film che erano in post-produzione sono serenamente stati completati, così come quelli che dovevano essere solo montati o ritoccati, ma tutto il resto si è fermato. Ne ha risentito la distribuzione, che ha deciso di affidarsi ai canali on-demand, in particolar modo Sky, che offre la possibilità di acquistare determinati titoli come se si stesse andando a cinema, ma con la comodità dello stare a casa, sul proprio divano in soggiorno. Ovviamente non è la stessa cosa, ma si è cercato di fare necessità virtù. Dal punto di vista economico bisognerà riuscire a riprendersi e a ripartire quanto prima, sia perché bisogna dar conto degli investimenti fatti sia perché, un po’ come per l’editoria, la società vive se il prodotto viene venduto. Se il prodotto finale non viene venduto, la società non vive. Diversa la vita del videogioco, che sebbene abbia bisogno, in egual misura del cinema, di determinate strutture per essere realizzato e che non sempre si presta alle attività da casa, dal punto di vista economico non ha subito grandi rallentamenti. Anzi, lo sport si è riversato sull’eSport, spingendo moltissimi atleti a riscoprirsi giocatori di Fifa, Pro Evolution Soccer e i rispettivi videogiochi sulla Formula 1, la MotoGP e il basket. Al di là di questo aspetto, mi è stato chiesto a più riprese come questa epidemia avrebbe impattato sulle software house: è un discorso a parte, perché la software house non guadagna dalla costante e cadenzata vendita dei propri videogiochi, bensì dal portare a termine un determinato progetto, che solitamente viaggia dai 6 mesi in su. Alcune attività sono state sicuramente rallentate, ma parliamo di un massimo di due mesi di lavoro: nulla di irrecuperabile con un po’ di crunch nei momenti giusti.
Però ci sono stati dei rinvii anche di titoli molto importanti che dovevano uscire in questo periodo.
È stata una mossa giusta, secondo me, perché si rischiava di creare confusione. Il 10 aprile, quindi in piena epidemia, Square-Enix ha deciso comunque di far uscire Final Fantasy VII Remake, già rimandato di un mese prima dello scoppio dell’epidemia legata al Covid-19. Lo ha fatto perché era fondamentale che la release non subisse ulteriori problematiche e rinvii, ma lo ha fatto con la consapevolezza che avrebbe creato confusione in sede di spedizione del prodotto e dinanzi alle numerose prenotazioni che erano già state accumulate e siglate nei mesi precedenti. Conosco numerose persone che purtroppo, nonostante siamo a fine mese, ancora non hanno avuto la possibilità di giocare a Final Fantasy VII Remake, uno dei titoli più attesi di questa prima metà del 2020, a causa proprio della chiusura di alcuni rivenditori locali. Square-Enix, dal suo canto, per chi aveva acquistato la copia dagli store ufficiali americani ed europei ha gestito le spedizioni con precauzione, anticipandole di molto e in alcuni casi recapitando l’ordine anche settimane prima del 10 aprile. Questo aspetto ha messo in difficoltà molti altri attori del videogioco, come la stampa, che per accordi intercorsi e consuetudinari aveva siglato degli accordi di non divulgazione in date successive alla ricezione della copia da parte di molti utenti finali. Non dico si sia creato un caos, ma sicuramente si è dato spazio a delle incertezze su larga scala. Chi ha deciso, quindi, di rinviare alcune uscite lo ha fatto sicuramente ragionando da un punto di vista dell’impatto sul mercato, ma anche a fronte del fatto che tutti gli uffici sono chiusi e dato che le software house sono composte da più di cento persone, si è dovuto rivedere qualsiasi piano di progettazione e di produzione. Insomma, mi sento di dire che la scelta è stata giusta: si tratta di un guadagno solo rinviato e ci si è presi la possibilità di ragionare meglio su alcuni aspetti che rischiavano di essere approssimati.
Ci sono aziende, tra quelle che segui, che hanno risposto meglio o peggio di altre all’epidemia?
Senza voler fare nomi né esaminare casi specifici, posso sicuramente dire che tra le aziende che seguo e che ho seguito c’è chi ha fatto bene e chi ha fatto meno bene. In alcuni casi, ricoprendo un ruolo a tutti gli effetti di consulente per la comunicazione, sono riuscito a indirizzarli adeguatamente, in altri casi non c’è stato spazio di manovra. Soprattutto sul food mi sono ritrovato abbastanza sorpreso dalla reazione di un brand specifico, tra l’altro di portata nazionale molto importante, che ha reagito accentrato tutta la comunicazione e vanificando alcuni progetti che erano stati posti in essere a inizio anno, in tempi non sospetti. Non sto criticando le scelte, perché ribadisco di essere un consulente e nulla più, ma per rispondere alla tua domanda sicuramente ci sono stati brand che hanno voluto affrontare il tutto in maniera diversa, per necessità interne, per una visione più specifica o per una maggior sicurezza: i motivi possono essere molteplici. Invece ho apprezzato molto le aziende impegnate nell’insegnamento, quello privato, che hanno continuato a premere sull’acceleratore, dimostrando di sapersi rimodulare adeguatamente a questa situazione e offrendo soluzioni al passo con i tempi, tra l’e-learning e open day gestiti esclusivamente online. D’altronde programmare per le riaperture è fondamentale tanto quanto affrontare l’epidemia con le giuste armi. Come monito per il futuro ricordo che fermarsi con la comunicazione in un periodo così non ha mai portato vincitori, ma solo vinti.
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