Andrea Zorzi, campione della Pallavolo, ruolo opposto, ha trascorso la sua vita sempre… in cima. "A sedici anni ero già tra i più alti della mia scuola: 1 metro e 86, alto ma non fuori misura. Mia mamma ha lavorato per tanti anni in un’isola di Venezia dove c’è un manicomio. Accadde che una notte delirai e sognai i lupi. Mi svegliai, andai in bagno e per la prima volta non mi vedevo allo specchio. Solo in una notte, 15 centimetri in più. Questa febbre l’ho avuta un paio di volte e quindi fate voi…", scherza Zorzi. Anzi Zorro, il suo soprannome. "Una cosa molto facile. In quella Nazionale-generazione di fenomeni c’erano Andrea Lucchetta, Andrea Giani, Andrea Gardini, Andrea Anastasi, Andrea Zorzi. Se in un allenamento qualcuno avesse detto "Andrea", sarebbe stato il putiferio. Quindi Lucchetta era Lucky, Gardini era Gardo, Giani era Giangio, Anastasi era Nano perchè alto solo 186 centimetri. Io ero Zorro". La sua altezza a referto è 2.01. "Non è quella reale. L’ho fatto per rubacchiare un po’ durante il servizio militare. Sono alto molto di più".
Il gruppo e gli amici: "Non è necessario essere amici per formare una buona squadra. Se si fanno le vacanze o meno, non è importante. Per essere una buona squadra, bisogna rispettarsi. Soprattutto nella Pallavolo, che è l’unico sport di squadra nel quale non è prevista l’azione individuale. Pure il Basket e il Rugby sono sport di squadra, ma c’è uno spazio, un modo che consente di fare azioni individuali e andare a canestro o in meta. Nella Pallavolo no: non è possibile che lo stesso giocatore tochi due volte il pallone consecutivamente. Sono figlio unico ma Masciarelli è come se fosse mio fratello e Giani il mio fratellino. Con Gardini ci conosciamo dalle juniores. Nei lunghi collegiali, abbiamo passato tantissimo tempo insieme ma abbiamo visioni diametralmente opposti. L’opinione che entrambi abbiamo di Velasco è radicalmente diversa. Non ho mai amato perdere, ma anche davanti alle sconfitte la reazione era ripartire dalla palestra il giorno dopo. Con il tempo mi sono accorto che ogni sconfitta fosse una ferita non rimarginabile e questa dimensione mi ha spinto a capire che fosse tempo di smettere. Quando adesso guardo il mondo dello sport, non mi eccito a guardare una partita: mi piace ma non tocca le corde più profonde. Adesso ho la sensazione che troppe volte si usino gli slogan per raccontare lo sport".
Zorro continua: "Ci sono un sacco di occasioni nelle quali le aziende usano lo sport per realizzare giochi di parole funzionali più a vendere prodotti sportivi che a raccontare lo sport. Non è vero che volere è potere. Non è vero che la sconfitta non è un’opzione. Quando ho smesso, seguii la compagnia teatrale di mia moglie, Giulia Staccioli, in una tournée. Ma mi occupavo delle luci, come tecnico. Poi alcuni amici mi hanno chiesto di andare in scena con la Leggenda del pallavolista volante, che dura da 14 anni. Non sono in grado di recitare qualcosa che non riguardi la mia". In che modo dunque lo sport può essere una bella occasione di stimolo? "Anche negli sport di squadra - continua - talvolta ci concentriamo su un singolo giocatore. Dunque anche gli sport di squadra sono legati ad una singola faccia e questo è un tradimento per il gruppo. Mi rendo conto che la comunicazione abbia bisogno di una faccia. Allora la domanda è: se lo sport fa bene, quale fa davvero bene? La Pallavolo per me ha avuto un grande vantaggio. Non è così popolare così come gli altri sport. Perciò capita che quando noi chiamiamo gli atleti, loro ci rispondono dallo spogliatoio in video con il telefonino. Viene fuori una Domenica Sportiva al naturale. Non c’è l’ufficio stampa che obbliga a filtrare, non ci sono tanti vincoli. Negli anni d’oro, la Pallavolo ha avuto visibilità per diventare qualcosa di bello ma non al punto da diventare troppo popolare".
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