"Nel cinema, come nel mondo dell’arte in genere, non ci sono certezze. I premi sono pericolosi, si rischia di sedersi, di entrare nel loop in cui pensi di avere il tocco magico. Io al momento riguardando i miei film continuo a pensare a cosa potessi fare meglio". Giacomo Abbruzzese commenta così il successo ottenuto con il suo primo film "Disco Boy". Presentato al Festival di Berlino 2023, unico film italiano in concorso, si è aggiudicato L’Orso d’argento per il Miglior Contributo Artistico ed è stato nominato ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento come miglior esordio. Regista, sceneggiatore, montatore, ai ragazzi della sezione Generator +18 che hanno preso parte al workshop ha raccontato il suo percorso, il suo esordio, il rapporto con la sua famiglia e la città d’origine. "Quando facevo il liceo scientifico a casa mia non c’erano nè libri, nè film. Vengo da una famiglia popolare, quando ho cominciato ad appassionarmi al cinema e a desiderare di diventare un artista ho vissuto un senso di solitudine. Taranto è una città di provincia, per riuscire ad avere accesso ad alcuni film d’autore registravo ciò che trasmettevano in Rai a Fuori Orario. Quando un’insegnate mi propose di partecipare ad un concorso per cortometraggi mi buttai e vinsi. Cominciai a pensare di essere in grado di farne, per dieci anni ne realizzai uno all’anno, anche quando mi trasferii a Siena per l’Università".
"Disco Boy" racconta la storia di Aleksei, bielorusso in fuga dal suo passato. Raggiunge Parigi e si arruola nella Legione Straniera per ottenere il passaporto francese. Nel delta del Niger, il giovane Jomo si batte contro le compagnie petrolifere che hanno devastato il suo villaggio. La sorella Udoka sogna di fuggire. I loro destini si intrecceranno, al di là dei confini, della vita e della morte. "Volevo fare un film di guerra che consentisse di vedere il conflitto da entrambi i lati. Così, quando arriva la scena di morte, non empatizzi con uno o con l’altro, vivi solo l’orrore della guerra. In un momento in cui la grande retorica sull’argomento fa ritorno, volevo dare più punti di vista. Il problema è che ognuno pensa di stare dalla parte giusta. Il cinema può costruire una pluralità di sguardi, non dovrebbe restituire un mondo polarizzato come ama fare un certo cinema americano". Un Master in cinematografia a Bologna, due anni come fotografo tra Israele e Palestina, un diploma nel centro de Le Fresnoy in Francia. Per buona parte della sua carriera ha lavorato sui cortometraggi e sulla documentaristica, per i quali ha ricevuto molti riconoscimenti.
"Il cortometraggio è una forma di linguaggio a sé ed ha una leggerezza produttiva interessante. È difficilissimo partire da zero e catapultarsi in un lungometraggio. È stato fondamentale per me essermi misurato prima con dei corti". Ad Abbruzzese tante le domande sulla complessità della regia, ma anche un passaggio obbligato sull’applicazione dell’intelligenza artificiale nel settore. "Il problem solving su un set è costante. Un regista deve poter tenere tutto insieme, non è affatto semplice. Per non parlare del fatto che, quando fai un’opera prima, tutti pensano di poterti dare dei consigli. Bisogna avere polso, ma soprattutto idee chiare. Sull’IA non sono molto ferrato, come ogni strumento può essere di aiuto ma ha anche una serie di pericoli. Il mondo va sempre più veloce ed il rischio è lasciare indietro tanta gente. Velocità ed efficacia non possono essere gli unici parametri che ci muovono". Al termine dell’incontro al regista Giacomo Abbruzzese è stato consegnato il Giffoni Award.
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